Roberto Rosetti e la sua esperienza arbitrale

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Come comincia da bambini la passione di un futuro arbitro?  E’ passione per il calcio o, subito, per il mestiere di arbitro?

“No, la mia prima passione era per il calcio. Mio padre era un grande tifoso del Torino e, fin da bambino, mi portava allo stadio Comunale a vedere le partite dei granata. Questa è una delle immagini più belle e intense che porto con me. Mio papà ora non c’è più, però ricordo benissimo lui che mi teneva per mano, mentre ci avvicinavamo allo stadio. Io giocavo a calcio tutti i giorni sotto casa. Giocavo con gli amici, le porte erano le panchine e passavamo tutti i pomeriggi in questa piazzetta che per noi era Wembley. Avevo sedici anni quando un amico di mio padre mi parlò di un corso per diventare arbitro di calcio. Diventando arbitri di calcio, si ha a disposizione la tessera federale che da la possibilità di andare a vedere le partite gratis allo stadio. Ho cominciato così. La passione per l’arbitraggio è cresciuta nel tempo fino a diventare un’attività primaria della mia vita”.

Si ricorda la prima partita che ha arbitrato?

“Si, mi ricordo benissimo. Avevo sedici anni e ho arbitrato Pozzostrada-Luceneto: il campo era in un quartiere non troppo distante da casa mia. Vieni catapultato in un campo di ragazzini, hai un fischietto in mano e devi cominciare a decidere. E questo è il più grosso insegnamento che dà questo tipo di attività, perché da quel momento tu sei solo in mezzo al campo. Ci sono due squadre che si stanno giocando la partita, ci sono i genitori attorno che fanno un tifo sfrenato e tu, a sedici anni, devi prendere delle decisioni. Non puoi più chiedere aiuto ai toi genitori, non puoi più chiedere consigli ai tuoi amici, sei solo e devi decidere, devi in continuazione valutare quello che accade sul terreno di gioco e decidere, decidere, decidere” .

Nella sua vita di adolescente che cosa è stata questa educazione così prematura a decidere?

“L’arbitraggio per me è stato una grande esperienza di vita. E’ un’attività formativa molto importante sia per quanto riguarda la capacità di relazionarsi con le altre persone, sia per quanto riguarda la forza e l’autonomia sollecitate dal bisogno di riuscire a prendere sempre delle decisioni. E’ sicuramente un modo per rafforzare il proprio carattere, un modo che io mi sento consigliare ai ragazzi adolescenti perché raramente un ragazzo di quattordici anni o di quindici prende delle decisioni autonomamente. In realtà finisce col seguire quello che decidono i genitori, cerca di seguire sempre le mode, gli amici. Invece, arbitrare ti insegna a diventare grandi prima”.

In quegli anni ha mai avuto paura in campo? 

“Forse paura no, io credo che c’è sempre una sorta di incoscienza. Un giovane arbitro purtroppo affronta delle situazioni molto delicate, molto complicate, molto difficili, in ambienti veramente a volte anche pericolosi. In ogni caso, un vero arbitro sente sempre il dovere di prendere quella che sente essere la decisione giusta. E’ la sua etica, sempre, il suo scudo più forte.  C’è stata qualche situazione in cui prendere quella che io ritenevo fosse la decisione giusta mi ha creato momenti di paura, però anche questo fa parte della carriera di un arbitro, del percorso di un arbitro. Ricordo tanti anni fa, io arbitravo l’interregionale, ero a Scardivari, un piccolo paesino sulla foce del Po, vicino Rovigo. Avevo solo ventidue anni e ricordo bene che diedi un rigore all’ultimo minuto e ci fu anche un’invasione di campo. Ecco, in quell’occasione uno comincia a farsi delle domande, perché è normale anche avere paura. Ma sono momenti, rischi che qualsiasi carriera può portare con sé”.

Quali sono le doti caratteriali necessarie ad un buon arbitro? 

“Credo che, fondamentalmente, ci voglia una forte base di coraggio, il coraggio di andare sempre dritti per la propria strada, il coraggio di prendere delle decisioni. Poi ci vuole una buona dose di autostima, cioè la coscienza dei tuoi punti di forza. Ma, su tutto, la voglia di migliorare sempre. Ogni giorno un arbitro si deve mettere in discussione. Nel momento in cui un arbitro crede di essere arrivato, crede di essere bravo… quello è veramente l’inizio della fine. E, l’ultima ma non per ultima, la personalità, un’autorevolezza che non deve mai sfociare nell’autoritarismo. Un arbitro che sia autorevole, carismatico fa sì che i giocatori lo sentano credibile quando decide”.

Lei dava del del “tu” o del “lei” ai giocatori?

“Io davo del tu, anche perché ci si incrociava, durante l’anno, tante volte. Ma io credo che quello che fa veramente la differenza è il rispetto del nostro interlocutore. Per cui ci si può dare del tu ma si deve trasmettere grande rispetto dei giocatori e soprattutto grande uniformità di comportamenti, verso la grande star oppure verso il più giovane della Primavera. I giocatori percepiscono subito questo tipo di approccio. Se si rispettano i giocatori e li si tratta nel modo opportuno, il rispetto torna indietro, come un risarcimento”.

Cos’è l’errore per l’arbitro?

“Il primo che ci sta male, il primo che soffre è proprio l’arbitro. Questo glielo garantisco. Nel momento in cui l’arbitro si rende conto dell’errore, chiaramente sa di non aver fatto bene il proprio lavoro. Però deve avere la forza di analizzare l’errore, di studiarlo, di confrontarsi anche con i propri colleghi, cercando di capire i motivi per i quali ha sbagliato e poi deve resettare completamente, deve dimenticare l’errore cercando di fare tesoro e di utilizzare l’errore come uno strumento importante di crescita e non di fallimento”.

Se un arbitro fa un errore durante il primo tempo, nello spogliatoio se ne accorge? Qualcuno glielo dice?

“Si, sicuramente, viene molto velocemente informato dell’errore che ha commesso. Non possiamo essere ipocriti di fronte a questo, succede così. E’ un momento difficile perché l’arbitro deve avere la forza di scendere in campo nel secondo tempo avendo completamente dimenticato l’accaduto. Ci sono ancora quarantacinque minuti da giocare e se dovesse sbagliare di nuovo sarebbe il secondo errore in una gara sola. Deve avere assolutamente la forza di continuare la gara senza portarsi dietro il fardello di quell’errore commesso. Poi avrà tempo, dopo la partita, di vivisezionarlo e, così, di superarlo”.

Sinceramente: dal punto di vista psicologico ogni tanto scatta l’idea di compensare un danno? Viene un pò come riflesso condizionato? 

“Un buon arbitro non deve mai cadere in questo errore. Non sarebbe un buon arbitro, non sarebbe professionale, non sarebbe etico. A me questo non è mai capitato. Sarebbe il modo migliore per sbagliare di più”.

Qua’è la partita più difficile che lei ha arbitrato?

E’ stato il derby sospeso di Roma, quando ci fu la notizia, che si rivelò per fortuna infondata, della morte di un bambino. I giocatori della Roma e della Lazio non volevano più continuare a giocare la partita e devo dire che quello è stato veramente un momento surreale, un momento brutto, un momento che non fa parte della mia concezione della bellezza del calcio”.

Quella sera chi decise di sospendere la partita?

“Il triplice fischio chiaramente lo feci io, ma chi decise veramente di sospendere la partita furono i giocatori. I giocatori non volevano assolutamente più continuare quella partita. Si era creato un clima grottesco, drammatico, con l’invasione di tifosi che entravano in campo e parlavano con i giocatori. Io credo che i giocatori non avrebbero mai terminato quella partita”.

Quanto pesano su un arbitro le critiche e quanto è difficile non poter mai rispondere? Quanto pesa il silenzio?

“A volte un arbitro avrebbe piacere e voglia di confrontarsi e di spiegare. Ma non credo che, in fondo, interessi il mondo dell’arbitro, la difficoltà del suo lavoro, la durezza di assumere decisioni immediate. Le possibili domande che potrebbero essere rivolte sarebbero sempre le stesse: -Perché non è stato dato un rigore o non è stato visto un determinato fuorigioco”.

Cosa pensa della moviola in campo?

Io sono il responsabile del progetto del video arbitro che coinvolge Federazione e Lega. Credo che ci siano delle situazioni in cui l’unica persona che deve prendere la decisione e l’unica che non ha modo di vedere e rivedere quello che è realmente successo è proprio l’arbitro. Tutti gli altri, giornalisti o tifosi, possono farlo. Di fronte a un gol segnato con la mano o in posizione di evidente fuorigioco l’unica persona che deve veramente prendere la decisione non ha la possibilità di rivedere ciò che è accaduto. Io non credo che sia giusto, anche perché poi l’errore lo penalizzerà nella carriera futura. Mi riferisco per esempio al gol segnato con la mano da Henry in quella famosa partita Francia-Irlanda che costò l’eliminazione dell’Irlanda al mondiale o ad altri episodi simili. Capitò a me in una partita ai mondiali in Sudafrica. Un gol segnato in fuorigioco evidente e purtroppo non fu colto dal mio assistente. Per questo non si realizzò il mio sogno di arbitrare la finale. Perché non dare la possibilità all’arbitro, in situazioni di questo tipo, di rimediare all’errore commesso? Sarebbe un aiuto importante per l’arbitro e sarebbe anche una garanzia per il mondo del calcio”.

Dopo quel gol di Tevez, cosa le disse il suo assistente?

“Purtroppo il mio assistente perse il giocatore in fuorigioco, Tevez, per cercare di valutare un possibile fallo che poteva commettere. Questo è quello che accadde, fu un errore che noi come squadra compimmo. Io mi assunsi la responsabilità di questo errore perché il leader della squadra deve metterci la faccia quando le cose non vanno bene e io lo feci. E noi purtroppo tornammo a casa”.

Adesso che è tutto in prescrizione, mi può dire chi è il giocatore più rognoso che ha incontrato?

“Devo dire che qualche diverbio con Antonio Cassano c’è stato. Ci fu qualche scontro in campo, poi in realtà è stato tutto chiarito. E’ un ragazzo simpatico, per cui, dopo qualche vivace discussione, abbiamo costruito un rapporto molto sereno”.

Può agire in realtà qualche condizionamento di tipo psicologico dato dalla forza della società che si arbitra?

“Questo sarebbe un limite grandissimo per un arbitro. Sarebbe gravissimo farsi condizionare da un club o dai giocatori importanti. Un arbitro deve andare in campo soltanto per l’aspetto tecnico, il suo unico obiettivo è quello di prendere delle decisioni giuste. Si deve focalizzare soltanto su quello che avviene, giudicando separatamente ogni episodio. Gli arbitri italiani sono un’eccellenza del calcio nel mondo, non credo che altre nazioni europee abbiano quattro arbitri top come ha l’Italia ora”.

Chi è stato il giocatore più intelligente e collaborativo che lei abbia trovato in campo?

“Non per caso, le bandiere della società. Paolo Maldini ha sempre avuto un comportamento esemplare sul terreno di gioco, ma a me piace anche ricordare uno dei giocatori più immensi del calcio italiano, Francesco Totti al quale faccio gli auguri per i suoi incredibili quarant’anni, e il capitano della Juventus, Alessandro Del Piero Questi giocatori hanno sempre avuto degli atteggiamenti collaborativi nei confronti miei e dei miei colleghi”.

C’è stato un arbitro che per lei è stato un modello?

“L’Italia ha sempre espresso degli arbitri che non sono stati apprezzati moltissimo a livello internazionale. Mi viene da pensare che Pierluigi Collina abbia cambiato l’arbitraggio, dal punto di vista della professionalizzazione, del ruolo. E’ stato un vero modello per l’attenzione particolare ai dettagli, per la cura nella preparazione della gara, per l’attenzione all’alimentazione, per la cura maniacale all’allenamento. Io credo che lui abbia contribuito alla crescita della figura arbitrale non solo per l’Italia ma anche per altre nazioni”.

Che cos’è la solitudine dell’arbitro? 

“Sempre meno solitudine devo dire. Diciamo che quando un arbitro comincia la sua carriera davvero è solo perché ha contro tutto il mondo. E’ solo e deve prendere delle decisioni in grande solitudine. Ora nel calcio moderno il ruolo dell’arbitro, specialmente su livelli molto alti, sta cambiando. L’arbitro moderno non deve essere solo molto ben preparato dal punto di vista tecnico decisionale ma deve avere anche delle qualità di gestione di una squadra. L’arbitro moderno deve essere bravo e sempre di più questo sarà richiesto dalle nuove tecnologie, anche a raccogliere delle informazioni, filtrarle e usarle nel modo appropriato”.

Vogliamo impegnare le ultime righe per quegli arbitri che faticano e rischiano nei campi di provincia?

“Ci sono stati recentemente molti episodi di violenza su giovani arbitri. Sono ragazzi che praticano l’attività sportiva facendo gli arbitri, mossi solamente da autentica passione. Sono troppo frequenti le umiliazioni fisiche e psicologiche che subiscono. Io credo che il mondo del calcio debba reagire in modo compatto ed eliminare questa piaga. Loro corrono nella polvere e spesso rischiano la pelle. Di loro non parla mai nessuno. Ma senza di loro il calcio non ci sarebbe”.